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150 anni unità d'Italia!!


tartagnan

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Fratelli d'Italia

L'Italia s'è desta,

Dell'elmo di Scipio

S'è cinta la testa.

Dov'è la Vittoria?

Le porga la chioma,

Ché schiava di Roma

Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli

Calpesti, derisi,

Perché non siam popolo,

Perché siam divisi.

Raccolgaci un'unica

Bandiera, una speme:

Di fonderci insieme

Già l'ora suonò.

Stringiamoci a coorte

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,

l'Unione, e l'amore

Rivelano ai Popoli

Le vie del Signore;

Giuriamo far libero

Il suolo natìo:

Uniti per Dio

Chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia

Dovunque è Legnano,

Ogn'uom di Ferruccio

Ha il core, ha la mano,

I bimbi d'Italia

Si chiaman Balilla,

Il suon d'ogni squilla

I Vespri suonò.

Stringiamoci a coorte

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano

Le spade vendute:

Già l'Aquila d'Austria

Le penne ha perdute.

Il sangue d'Italia,

Il sangue Polacco,

Bevé, col cosacco,

Ma il cor le bruciò.

Stringiamoci a coorte

Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò

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Inviato (modificato)

La piccola vedetta lombarda

da il Cuore di De Amicis

26, sabato

Nel 1859, durante la guerra per la liberazione della Lombardia, pochi giorni dopo la battaglia di Solferino e San Martino, vinta dai Francesi e dagli Italiani contro gli Austriaci, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di cavalleggieri di Saluzzo andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il nemico, esplorando attentamente la campagna. Guidavano il drappello un ufficiale e un sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio fisso, muti, preparati a veder da un momento all'altro biancheggiare fra gli alberi le divise degli avamposti nemici. Arrivarono così a una casetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava tutto solo un ragazzo d'una dozzina d'anni, che scortecciava un piccolo ramo con un coltello, per farsene un bastoncino; da una finestra della casa spenzolava una larga bandiera tricolore; dentro non c'era nessuno: i contadini, messa fuori la bandiera, erano scappati, per paura degli Austriaci. Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo buttò via il bastone e si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; era in maniche di camicia, e mostrava il petto nudo.

- Che fai qui? - gli domandò l'ufficiale, fermando il cavallo. - Perché non sei fuggito con la tua famiglia?

- Io non ho famiglia, - rispose il ragazzo. - Sono un trovatello. Lavoro un po' per tutti. Son rimasto qui per veder la guerra.

- Hai visto passare degli Austriaci?

- No, da tre giorni.

L'ufficiale stette un poco pensando; poi saltò giù da cavallo, e lasciati i soldati lì, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto... La casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di campagna. - Bisogna salir sugli alberi, - disse l'ufficiale, e discese. Proprio davanti all'aia si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta nell'azzurro. L'ufficiale rimase un po' sopra pensiero, guardando ora l'albero ora i soldati; poi tutt'a un tratto domandò al ragazzo:

- Hai buona vista, tu, monello?

- Io? - rispose il ragazzo. - Io vedo un passerotto lontano un miglio.

- Saresti buono a salire in cima a quell'albero?

- In cima a quell'albero? io? In mezzo minuto ci salgo.

- E sapresti dirmi quello che vedi di lassù, se c'è soldati austriaci da quella parte, nuvoli di polvere, fucili che luccicano, cavalli?

- Sicuro che saprei.

- Che cosa vuoi per farmi questo servizio?

- Che cosa voglio? - disse il ragazzo sorridendo. - Niente. Bella cosa! E poi... se fosse per i tedeschi, a nessun patto; ma per i nostri! Io sono lombardo.

- Bene. Va su dunque.

- Un momento, che mi levi le scarpe.

Si levò le scarpe, si strinse la cinghia dei calzoni, buttò nell'erba il berretto e abbracciò il tronco del frassino

- Ma bada... - esclamò l'ufficiale, facendo l'atto di trattenerlo, come preso da un timore improvviso.

Il ragazzo si voltò a guardarlo, coi suoi begli occhi celesti, in atto interrogativo.

- Niente, - disse l'ufficiale; - va su.

Il ragazzo andò su, come un gatto.

- Guardate davanti a voi, - gridò l'ufficiale ai soldati.

In pochi momenti il ragazzo fu sulla cima dell'albero, avviticchiato al fusto, con le gambe fra le foglie, ma col busto scoperto, e il sole gli batteva sul capo biondo, che pareva d'oro. L'ufficiale lo vedeva appena, tanto era piccino lassù.

- Guarda dritto e lontano, - gridò l'ufficiale.

Il ragazzo, per veder meglio, staccò la mano destra dall'albero e se la mise alla fronte.

- Che cosa vedi? - domandò l'ufficiale.

Il ragazzo chinò il viso verso di lui, e facendosi portavoce della mano, rispose: - Due uomini a cavallo, sulla strada bianca.

- A che distanza di qui?

- Mezzo miglio.

- Movono?

- Son fermi.

- Che altro vedi? - domandò l'ufficiale, dopo un momento di silenzio. - Guarda a destra.

Il ragazzo guardò a destra.

Poi disse: - Vicino al cimitero, tra gli alberi, c'è qualche cosa che luccica. Paiono baionette.

- Vedi gente?

- No. Saran nascosti nel grano.

In quel momento un fischio di palla acutissimo passò alto per l'aria e andò a morire lontano dietro alla casa.

- Scendi, ragazzo! - gridò l'ufficiale. - T'han visto. Non voglio altro. Vien giù.

- Io non ho paura, - rispose il ragazzo.

- Scendi... - ripeté l'ufficiale, - che altro vedi, a sinistra?

- A sinistra?

- Sì, a sinistra

Il ragazzo sporse il capo a sinistra; in quel punto un altro fischio più acuto e più basso del primo tagliò l'aria. Il ragazzo si riscosse tutto. - Accidenti! - esclamò. - L'hanno proprio con me! - La palla gli era passata poco lontano.

- Scendi! - gridò l'ufficiale, imperioso e irritato.

- Scendo subito, - rispose il ragazzo. - Ma l'albero mi ripara, non dubiti. A sinistra, vuole sapere?

- A sinistra, - rispose l'ufficiale; - ma scendi.

- A sinistra, - gridò il ragazzo, sporgendo il busto da quella parte, - dove c'è una cappella, mi par di veder...

Un terzo fischio rabbioso passò in alto, e quasi ad un punto si vide il ragazzo venir giù, trattenendosi per un tratto al fusto ed ai rami, e poi precipitando a capo fitto colle braccia aperte.

- Maledizione! - gridò l'ufficiale, accorrendo.

Il ragazzo batté la schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe, supino; un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra. Il sergente e due soldati saltaron giù da cavallo; l'ufficiale si chinò e gli aprì la camicia: la palla gli era entrata nel polmone sinistro. - È morto! - esclamò l'ufficiale. - No, vive! - rispose il sergente. - Ah! povero ragazzo! bravo ragazzo! - gridò l'ufficiale; - coraggio! coraggio! - Ma mentre gli diceva coraggio e gli premeva il fazzoletto sulla ferita, il ragazzo stralunò gli occhi e abbandonò il capo: era morto. L'ufficiale impallidì, e lo guardò fisso per un momento; poi lo adagiò col capo sull'erba; s'alzò, e stette a guardarlo; anche il sergente e i due soldati, immobili, lo guardavano: gli altri stavan rivolti verso il nemico.

- Povero ragazzo! - ripeté tristemente l'ufficiale. - Povero e bravo ragazzo!

Poi s'avvicinò alla casa, levò dalla finestra la bandiera tricolore, e la distese come un drappo funebre sul piccolo morto, lasciandogli il viso scoperto. Il sergente raccolse a fianco del morto le scarpe, il berretto, il bastoncino e il coltello.

Stettero ancora un momento silenziosi; poi l'ufficiale si rivolse al sergente e gli disse: - Lo manderemo a pigliare dall'ambulanza; è morto da soldato: lo seppelliranno i soldati. - Detto questo mandò un bacio al morto con un atto della mano, e gridò: - A cavallo. - Tutti balzarono in sella, il drappello si riunì e riprese il suo cammino.

E poche ore dopo il piccolo morto ebbe i suoi onori di guerra.

Al tramontar del sole, tutta la linea degli avamposti italiani s'avanzava verso il nemico, e per lo stesso cammino percorso la mattina dal drappello di cavalleria, procedeva su due file un grosso battaglione di bersaglieri, il quale, pochi giorni innanzi, aveva valorosamente rigato di sangue il colle di San Martino. La notizia della morte del ragazzo era già corsa fra quei soldati prima che lasciassero gli accampamenti. Il sentiero, fiancheggiato da un rigagnolo, passava a pochi passi di distanza dalla casa. Quando i primi ufficiali del battaglione videro il piccolo cadavere disteso ai piedi del frassino e coperto dalla bandiera tricolore, lo salutarono con la sciabola; e uno di essi si chinò sopra la sponda del rigagnolo, ch'era tutta fiorita, strappò due fiori e glieli gettò. Allora tutti i bersaglieri, via via che passavano, strapparono dei fiori e li gettarono al morto. In pochi minuti il ragazzo fu coperto di fiori, e ufficiali e soldati gli mandavan tutti un saluto passando: - Bravo, piccolo lombardo! - Addio, ragazzo! - A te, biondino! - Evviva! - Gloria! - Addio! - Un ufficiale gli gettò la sua medaglia al valore, un altro andò a baciargli la fronte. E i fiori continuavano a piovergli sui piedi nudi, sul petto insanguinato, sul capo biondo. Ed egli se ne dormiva là nell'erba, ravvolto nella sua bandiera, col viso bianco e quasi sorridente, povero ragazzo, come se sentisse quei saluti, e fosse contento d'aver dato la vita per la sua Lombardia.

Modificato da tartagnan
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Il tamburino sardo

 

 

Oggi è il 24 luglio 1848, e ci troviamo qui a Custoza, nelle verdi colline della provincia di Verona. Il protagonista della vicenda è un tamburino sardo, un ragazzo di poco più di quattordici anni, piccolo, dal viso bruno olivastro e con due occhietti neri e profondi. Egli si trova assieme ad una sessantina di soldati di un reggimento di fanteria dell'esercito piemontese, mandati su un'altura di Custoza ad occupare una casa abbandonata, quando improvvisamente vengono assaliti da due compagnie di soldati austriaci che li costringono a trovare rifugio nella casa stessa. Sbarrate precipitosamente le porte, i nostri uomini si dirigono verso le finestre imbracciando i fucili, dando così inizio ad una lunga ed estenuante battaglia che provoca numerosi morti su entrambi i fronti. Vistosi in grave difficoltà, il capitano del nostro reggimento, un vecchio alto, secco e austero, con i capelli e i baffi bianchi, chiama in disparte il piccolo tamburino, facendogli cenno di seguirlo al piano superiore: nella nuda soffitta il capitano sta scrivendo con una matita sopra un foglio; lo ripiega, e fissando negli occhi il ragazzo gli comunica che sta per affidargli un'importante missione: a Villafranca, appena scesa la collina, sono appostati i carabinieri italiani: il ragazzo ha l'ordine di raggiungerli e consegna re il messaggio al primo ufficiale che trova sul suo cammino. E così è. Si cala con una corda dalla finestra che si trova sul retro della casa, e comincia a correre il più velocemente possibile; nel frattempo, il capitano, con lo sguardo, segue tutti i suoi movimenti; gli austriaci si accorgono di lui ed iniziano a far fuoco su quella piccola figura che fugge verso i campi: viene colpito ma si rialza, riprende la corsa ma zoppica, rallenta per poi ricominciare a correre ancora più veloce, finché non scompare dietro una siepe e il capitano lo perde di vista. Al pian terreno, intanto, il numero dei morti va aumentando, ma egli non ha alcuna intenzione di arrendersi.

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Il tempo passa, e tutti ormai stanno perdendo ogni speranza quando, all'improvviso, in mezzo all'enorme polverone, scorgono i berretti a due punte dei carabinieri: i rinforzi sono finalmente giunti. Il piccolo tamburino ce l'ha fatta. La giornata termina con la vittoria dei nostri, ma due giorni dopo gli italiani sono costretti a ritirarsi sul Mincio, a causa dell'elevato numero di soldati austriaci presenti. Il capitano, benché ferito, una volta giunto a Goito desidera sincerarsi delle condizioni di salute di un suo luogotenente, anch'egli ferito e trasportato da un'ambulanza in un ospedale da campo: gli viene indicata una chiesa e una volta giuntovi si guarda attorno cercando con lo sguardo il suo ufficiale in mezzo a tutti quegli uomini adagiati sui materassi posti sul pavimento della chiesa. E' in quel momento che si sente chiamare da una voce fioca: è il piccolo tamburino, disteso sopra un letto a cavalletti, coperto fino al petto da una tenda da finestra, pallido e smagrito, che inizia il racconto della sua impresa, tra mille difficoltà e sotto il fuoco nemico, con l'unico pensiero di assolvere all'incarico che gli era stato affidato: l'uomo, vedendo il ragazzo così debole è indotto a pensare che abbia perso molto sangue, ma distoglie inorridito lo sguardo quando vede che al giovane è stata amputata una gamba, e il troncone rimasto è fasciato da panni insanguinati. Giunge in quell'attimo il medico che, dolente, comunica al capitano come la gamba si sarebbe potuta salvare, se non fosse stata sforzata in modo così assurdo. E' così che l'uomo, quel rozzo soldato che non aveva mai pronunciato una parola mite verso un suo inferiore, alza la mano alla fronte e dice: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe ". Poi si getta con le braccia aperte sul tamburino, e lo bacia tre volte sul cuore.

 

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